Il tempio di Spes nel Foro Olitorio. Le guerre puniche rappresentano quel momento della storia in cui la città di Roma si trasforma da potenza italica a potenza mondiale. All’inizio della prima guerra punica, di fronte al promontorio di Milazzo, Roma era riuscita ad ottenere una vittoria navale inaspettata contro Cartagine. La vittoria aveva sorpreso tutti perché Roma era una potenza terrestre e la sua avversaria una potenza marittima; basti pensare che a quanto racconta Polibio, i punici erano cosi sicuri della vittoria da non preoccuparsi neanche di disporre le navi in formazione da guerra.
La risposta di Cartagine a quell’affronto fu quanto mai immediata. Nello stesso anno (260 a.C.) un accampamento romano fu distrutto a Terme d’Imera, e uno dei due consoli in carica catturato. Seguirono anni di scontri che dimostrarono come la prima guerra punica fosse ormai diventata nelle intenzioni, oltre che nei fatti, una guerra il cui significato andava ben oltre la volontà romana di conquistare la Sicilia.
Nel 256 a.C. forti di una flotta di 230 navi, i consoli Marco Attilio Regolo e Lucio Manlio Vulsone, ottennero una grande e schiacciante vittoria a Capo Ecnòmo. Quella battaglia che vide scontrarsi oltre cinquecento navi, è considerata dagli storici una delle più grandi battaglie navali dell’antichità. A Roma, intanto, in una città stremata dall’immane sforzo bellico, e dove la lettura dei censimenti dava una popolazione diminuita di 50.000 persone rispetto all’inizio della guerra, Attilio Calatino (lo sappiamo grazie a Cicerone) dedicò un tempio in onore di quella vittoria: il tempio di Spes (della speranza) nel Foro Olitorio. Questo tempio corrisponde molto probabilmente a quello visibile – in una sua ricostruzione più tarda – sul lato sinistro della basilica di San Nicola in Carcere.
Accadde ora che sull’onda emotiva di questa vittoria, i due consoli decidessero di sbarcare in Africa, dove presa Tunisi si convinsero che l’anno successivo avrebbero potuto ottenere una facile vittoria contro la stessa Cartagine. Mentre il suo collega tornava in patria per celebrare il trionfo e preparare i rinforzi, Attilio Regolo rimase con le sue truppe a svernare in Africa, dove però l’inesperienza internazionale di Roma emerse drammaticamente. Nel 255 a.C. l’esercito romano fu distrutto e chi fra gli uomini rimase vivo, fu portato in salvo da una flotta alleata arrivata troppo tardi, e poi naufragata a causa di una violenta tempesta al largo delle spiagge di Camarina.
Se Roma aveva ottenuto delle vittorie, era anche vero che sul piano pratico queste non avevano portato grandi benefici. La città latina come era ormai da tempo nella sua prassi politica più tradizionale, era abituata a espandersi “a macchia d’olio”, combattendo nei territori con cui di volta in volta confinava, e nell’organizzare una guerra di cosi grandi dimensioni mancava di una chiara e puntuale visione strategica. I consoli in carica, per di più, si avvicendavano di anno in anno e non avevano neanche il tempo di accumulare l’esperienza necessaria per mettere a punto piani strategici. A questo si aggiunga che i consoli non erano militari di professione, ma spesso poco più che ricchi contadini, cosi il più delle volte i danni che alle flotte non provocavano i nemici riuscivano a fare le tempeste.
L’anno che seguì al disastro di Camarina, il console Attilio Calatio, riuscì a conquistare Palermo con una flotta che all’organico contava ben 250 navi. L’anno successivo però duecento di queste furono perse nel corso di una battaglia a Trapani.
Intanto un generale cartaginese, Amilcare Barca, era riuscito ad arroccare il suo esercito nella Sicilia Occidentale, da dove aveva iniziato a devastare le coste della Sardegna e dell’Italia meridionale. I romani furono costretti a ricostruire una flotta ma questa volta senza avere i soldi necessari, e dovettero ricorrere all’aiuto dei privati. Nel 241 Gaio Lutazio Catulo riportò una battaglia importante alle isole Egadi. Era una vittoria importante perché tagliava i rifornimenti ai Cartaginesi di Sicilia, e soprattutto forniva le premesse per un trattato di pace che poco dopo obbligò i Cartaginesi a rinunciare all’isola e a versare nel corso di venti anni una forte indennità di guerra.
La prima guerra punica era ormai conclusa, ma dall’altra parte del Mediterraneo Cartagine era ancora una città nel pieno della sua attività commerciale. Certo la guerra aveva provocato perdite enormi, ma chi aveva avuto la peggio erano gli esponenti delle grandi famiglie aristocratiche che avevano interessi nel mediterraneo. I grandi proprietari terrieri che spingevano per creare un impero nell’Africa settentrionale erano stati poco o nulla toccati dalla crisi. Quello che veramente era mutato, era la prospettiva con cui d’ora in poi i Cartaginesi avrebbero guardato Roma. La città Africana aveva capito l’effettiva portata delle forze romane, e fra i suoi uomini presto qualcuno avrebbe giurato vendetta.  Primo fra tutti Amilcare e poi suo figlio Annibale, il cui genio militare non ebbe forse rivali nella storia dell’umanità.

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