Il santuario della Fortuna Primigenia – Fra il II e il I secolo a.C. gli antichi scelsero i luoghi più belli della regione Lazio e vi costruirono dei santuari magnificenti. I santuari di Tivoli, di Gabi, di Nemi, di Terracina, di Lanuvio e di Tuscolo, ma solo per citarne alcuni, sono fra gli esempi più belli di un tipo di architettura maturata sotto l’influsso della cultura ellenistica, e che viene definita “scenografica.
Il santuario di Palestrina è diviso in due complessi, quello inferiore e quello superiore. Il primo è legato al foro della città, il secondo costituisce un complesso autonomo, il santuario vero e proprio. Cos’era un Santuario? Era un luogo dove era possibile incontrare una divinità, in questo caso la Dea Fortuna, ma era anche un luogo al cui interno si svolgevano le funzioni più diverse, come il mercato, le riunioni, e le funzioni pubbliche. Per gli antichi la Fortuna era intesa come la Sorte, in questo caso di Palestrina, mentre l’epiteto Primigenia indicava che essa era presente sin dalla nascita della città. Caratteristica dell’intero complesso è lo sviluppo prospettico in altezza. Le rampe e le scale uniscono fra loro i tre terrazzamenti principali: “Terrazza basale”, “terrazza degli emicicli”, “piazza della cortina”. L’ascesa verso l’alto è metaforicamente anche un’ascesa verso il sacro. La terrazza basale, tramite due rampe coperte da portici, permetteva di raggiungere la terrazza degli emicicli. Quando il fedele arrivava qui, la differenza fra gli spazi chiusi delle gallerie e il panorama che all’improvviso si apriva dinanzi, doveva essere tale da sorprendere. Non era un caso che su questa terrazza sorgesse un luogo sacro, il cui nucleo era un pozzo antichissimo che doveva avere valenze analoghe a quelle del mundus del Foro Romano. Voltandosi verso l’edificio si sarebbe scorto in alto il tempio della fortuna primigenia, cioè la destinazione finale da raggiungere: il desiderio di arrivare fin li avrebbe quasi annullato la fatica necessaria a intraprendere la parte restante del percorso. Superata un’altra rampa di scale e un terrazzamento minore, si giungeva alla gigantesca piazza della cortina, chiusa in fondo e ai lati da un porticato. Nel fondo di questo si apriva una cavea teatrale su cui ci si poteva sedere in occasione degli spettacoli e che fungeva anche da scalinata di accesso per il tempio. Esattamente come uno stadio moderno, la curvatura della cavea spingeva a voltarsi di nuovo verso lo spazio aperto, ove a destra e a sinistra le propaggini dei monti Lepini e dei Monti Albani come due leoni accucciati, incorniciavano – e incorniciano – perfettamente il panorama che si apre fino al mare. L’intero complesso era centrato perfettamente verso Anzio, sede di un altro culto di Fortuna e probabilmente area portuale della città. Quando si è in questo luogo sembra che sia stata la natura ad assecondare l’architetto di Palestrina e non viceversa. Siamo in età Ellenistica, il mondo si era allargato ai ricchi mercati del Mediterraneo orientale e Palestrina aveva lanciato al mare il suo messaggio di potenza.
A questo punto del percorso il tempio era nascosto alla vista da un porticato che sovrastava la cavea. Solo il ricordo di avere visto l’edificio, insistente ancora nella mente, e calcolato dall’architetto, spingeva il fedele a salire ancora fino a raggiungere il vero e proprio bastione della fede, il tempio di Fortuna, un edificio circolare a cupola al cui interno era presente una statua di culto in bronzo dorato. Ora si poteva uscire, ma non ripercorrendo l’intero percorso al contrario, bensì attraverso percorsi esterni al santuario.L’architetto di Palestrina aveva calcolato ogni cosa.
È un peccato che allo stato attuale l’entrata a questo bellissimo santuario non tenga più conto conto del percorso antico. L’entrata attuale, infatti, che dall’alto impone al visitatore di procedere verso il basso, ottiene l’effetto opposto a quello voluto dall’architetto. Non c’è meraviglia, si è già visto tutto prima di scendere. Non c’è ascensione, c’è pesantezza.  Consiglio quindi al momento della visita, di scendere giù e poi di risalire su tenendo conto pur fra le strutture mancanti,  del percorso originale che l’architetto ha progettato.

Riferimenti bibliografici:

Filippo Coarelli. I santuari del Lazio in età repubblicana. Roma, 1987.

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