IL TEMPIO DI GIANO nel Foro Olitorio. All’inizio del III secolo a.C. Roma era ormai riuscita a estendere i suoi domini su tutta l’Italia peninsulare. L’annessione delle città greche d’Occidente era stata possibile soprattutto grazie alle vittorie contro Pirro, un Re Epirota che si era messo a capo di una coalizione greco-Italica per sconfiggere Roma. La conquista dell’Italia peninsulare aveva avuto però conseguenze molto pericolose. Al di la dello stretto di Messina si stavano fronteggiando due realtà politiche che avevano plurisecolari tradizioni di governo e esperienze internazionali di gran lunga superiori a quelle di Roma, Siracusa e Cartagine. Cartagine in particolare dominava incontrastata il Mediterraneo Occidentale e i suoi territori coprivano buona parte dell’Africa settentrionale, fino a estendersi alla Sardegna e alla Sicilia. Gli uomini d’affari delle colonie cartaginesi erano proprietari di latifondi estesissimi, dove lavorava manodopera nera proveniente dal sud del Sahara. Grazie all’audacia di questi proprietari terrieri le colonie di Cartagine si stavano espandendo molto velocemente nel Mediterraneo.
La presenza di una potenza cosi grande vicino alle coste dell’Italia non poteva lasciare tranquilli i romani, e a rassicurare gli animi non bastava neanche il recente trattato di pace con cui i due stati si impegnavano a non entrare nelle rispettive sfere d’influenza. Per una certa parte della romanità, però, il vero motivo che spingeva a interessarsi della Sicilia era il fatto che questa era un’isola ricchissima. A essere attratti dalle vicende siciliane erano soprattutto quei magnogreci e quei campani, ora aleati di Roma, ma che da secoli manifestavano interessi commerciali verso il Sud del Mediterraneo.
Lo scontro che trasformò Roma, da un piccolo stato nazionale a una potenza intercontinentale iniziò con una piccola crisi diplomatica. C’era a Messina una colonia di mercenari campani, i Mamertini, che a seguito dei frequenti conflitti con Siracusa, decisero di chiedere la protezione dei Cartaginesi. I Cartaginesi mandarono un presidio nella città con lo scopo ufficiale di difenderla. Accadde però che poco dopo i Mamertini cominciarono a preoccuparsi della presenza ingombrante dei Cartaginesi e invitarono i Romani a impadronirsi della città.
Il senato, forse consapevole dei rischi cui andava incontro, decise per una soluzione diplomatica. Un console del tempo, Appio Claudio (non quello che aveva fatto costruire la via Appia) fu inviato sullo stretto per difendere gli interessi dei Mamertini. I cartaginesi di fronte all’imponente esercito di Roma schierato dall’altra parte dello stretto, abbandonarono Messina, dimostrando la loro intenzione di non ingenerare una crisi fra i due stati. Il console romano di sua spontanea volontà, e contro il volere del senato (oh, tempi nuovi!), attraversò lo stretto e occupò Messina.
Siracusani e Cartaginesi compresero ora di avere davanti un avversario interessato a mettere mano nelle vicende Siciliane e unirono velocemente i loro eserciti spostandoli su Messina. L’esercito Romano, forte dell’esperienza maturata sui campi di battaglia italici riuscì a liberarsi dall’assedio e ad avere facilmente la meglio. L’anno successivo Siracusa fu costretta a passare dalla parte dei Romani.
Sebbene per Cartagine la Sicilia rappresentasse un territorio di confine, i successi dei Romani non potevano essere certo tollerati. La città punica in quel momento era una potenza pari o forse superiore alla stessa Roma, e molto velocemente fu in grado di mettere insieme una flotta di 360 navi. Roma invece, ma solo grazie al provvidenziale aiuto delle città italiche, ne mise insieme 350. Fu lo scontro. Era l’anno 260 a. C., le agili navi Cartaginesi sfidavano le più lente e goffe navi guidate dai Romani. Roma non aveva esperienza sul mare e una sua sconfitta per i contemporanei doveva apparire inevitabile.
Nel 260 a Milazzo, meravigliando tutti, il generale romano Gaio Duilio condusse i Romani alla vittoria. La vittoria però non sarebbe mai stata possibile senza la geniale invenzione degli ingegneri romani: “i corvi”, cioè delle scalette di metallo dotate di uncino che servivano per arpionare lo scafo nemico, consentendo ai soldati di salirvi a bordo. I romani in questo modo potevano combattere a terra, trasformando la battaglia navale in una battaglia corpo a corpo, nella quale avevano una grande esperienza.
A Roma l’euforia fu tanta e il senato concesse al comandante l’onore di un tempio: quello di Giano, che è ancora possibile osservare nel Foro Olitorio. Il monumento attuale appartiene certamente a una ricostruzione più tarda, ma è emozionante osservare come, inglobato nel lato destro della basilica di San Nicola in Carcere, Roma conservi fiera un ricordo di quel passato lontano.
Dall’altra parte del mediterraneo, Cartagine, era però ancora una città florida. Per la città africana questa era stata poco più di una scaramuccia di confine, una battaglia nella quale in fin dei conti pensava di ottenere una facile vittoria. Presto entrambi gli stati dovettero scontrarsi in una guerra che sarebbe durata decenni e in cui ebbero bisogno di mettere in campo le loro risorse migliori. La guerra stessa si sarebbe trasformata in una lotta per la sopravvivenza; e di li a poco solamente uno dei due stati avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere. Quel periodo avrebbe regalato a Roma tanti altri monumenti che sono ancora oggi sotto i nostri occhi.

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